giovedì 19 luglio 2012

LA PITTA TE PATATE (sottotitolo: non chiamatela gattò!!!)







Come ho già detto in altri miei post, curiosando nel web si incontra veramente di tutto. L’altro giorno volevo fare la pitta di patate: io, naturalmente, ho la mia preziosa ricetta di famiglia, che risale come minimo a dieci generazioni fa, e vado sul sicuro; ma mi metto nei panni della casalinga di Bolzano (quella di Voghera è in vacanza a Gallipoli e la pitta la mangia sul posto) che, avendo sentito di questo piatto “cult” della tradizione salentina, desideri provare a farlo in casa propria e ne cerchi in Internet la ricetta “originale”:  credo che desisterebbe subito, rifugiandosi di corsa nei suoi rassicuranti canederli. Il caos più totale! Ho trovato ricette della pitta davvero assurde, come quella che prevede nell’impasto di base la farina o un’altra che vi inserisce il lievito (a che pro, chiedeteglielo voi), per non parlare di chi alle patate passate pretenderebbe di mescolare burro e parmigiano (sarà un fan del puré), besciamella (orrore!) o, addirittura… sottilette (sigh)!!!  Oscar Wilde diceva di detestare le persone che non prendono seriamente il cibo e diceva bene: non c’è niente di più irritante (e ridicolo) di quei superficialoni presuntuosi che salgono in cattedra  per insegnare di cucina senza avere la più pallida idea di ciò di cui parlano. Ma, dico io, per gli dei dell’Olimpo con tutto il monte, documentatevi, no? Perché c’è gente che magari vi piglia sul serio sprecando tempo e denaro dietro ad una vostra pseudoricetta! Un po’ di correttezza e di competenza, anche nel web, a mio avviso non guasterebbe. Tornando alla pitta e alle fandonie che circolano in rete sul suo conto, la cosa più assurda che mi sia capitato di leggere è che “pitta e gattò sono la stessa cosa” o che “la pitta è una specie di gattò, solo con un ripieno diverso” (il concetto, sempre quello è). A questo punto, in quanto salentina, prof e della Vergine, mi sento in dovere di intervenire per dimostrare che pitta e gattò NON SONO AFFATTO LA STESSA COSA, anzi! Le due pietanze si differenziano profondamente per il diverso contesto storico-sociale in cui sono nate e dal quale sono state influenzate a livello di ingredienti e di modalità esecutive. Il gattò  ebbe i suoi natali nel Settecento, nella cucina dei sovrani di Napoli, ad opera dei famosi monzù: pare che la regina Maria Carolina  fosse rimasta talmente colpita dalla cucina di corte di Versailles, dove regnava sua sorella Maria Antonietta, da chiedere a quest’ultima di donarle alcuni dei suoi cuochi migliori. Fu così che costoro invasero la capitale del regno borbonico creando, per il Re Nasone e l’austriaca consorte, raffinate prelibatezze tra cui il timballo di pasta, il babà e, appunto, il gattò di patate. Qui, sì, ci va il burro, proprio perché è opera di un francese e, si sa, i cuochi della douce France sguazzano da sempre tra i grassi animali come se il colesterolo non esistesse. Burro, quindi, assieme ai prodotti tipici del Napoletano: la mozzarella fiordilatte, il salame, la provola… Le sottilette non sono contemplate nemmeno qui, ma si tratta sicuramente di una svista :)  
Ora, abbandonate le cucine reali, gli ingredienti costosi e raffinati, monzù Gaston con il suo seguito di  beurre, erre moscia e puzzetta sotto il naso e fate un salto tra gli ulivi di quello stesso Sud in un tempo assai più remoto dove, tra quattro mura umide e fatiscenti, una donna bruna dalla bellezza sfiorita, una contadina, si sta ingegnando per inventarsi qualcosa con cui sfamare marito e figli. E’ il miracolo che si rinnova ogni santo giorno, cavar fuori qualcosa di gustoso e sostanzioso da quel poco che passa il convento: qualche verdura tirata su rigogliosa dal sudore della propria fronte ed un po’ di olio buono scampato alla cupidigia dei padroni, custodito nell’orcio. Il profumo di pitta si solleva dal coccio tra la cenere del focolare, riempie i nasi dei commensali affamati e stuzzica l’allegria; si rallegra pure chi l'ha fatta, giacché ha di che saziare quegli appetiti robusti. Dopo torneranno tutti nei campi e riprenderanno a spaccare il suolo con le vanghe, poiché si semina prima di raccogliere e si dà prima di ricevere. Il dare è tanto,  perché la terra è esigente. Reclama fatica, sangue, schiene spezzate, e alla donna bruna chiede più degli altri, perché, si sa, meglio sopporta e tace. Ma un giorno il grano tornerà a farsi alto e gli uomini correranno a prendere i tamburelli per accompagnarla nel ballo forsennato che sfiancherà la bestia maledetta; e, con essa, la sofferenza di chi deve inventarsi il morso di un ragno per esistere







PITTA DI PATATE SALENTINA
(quella vera!)


INGREDIENTI:


1 chilo e mezzo di patate a pasta gialla

200 grammi di pecorino salentino ben stagionato

un uovo grande

mentuccia 

un pugno di pane grattugiato

mezzo chilo di cipolle dorate

400 grammi di polpa di pomodoro fresca 
(meglio di pomodori San Marzano)

una manciata di olive salentine in salamoia

un cucchiaio di capperi sott'aceto

sale e olio extravergine di oliva q.b.



Lavate le patate, mettetele in una pentola, copritele di acqua fredda  e fatele cuocere per circa un'ora. Pelatele e passatele finché sono ancora calde, poi lasciatele raffreddare. Nel frattempo preparate il sughetto. Affettate sottilmente le cipolle e fatele dorare in padella assieme ad una dose generosa di ottimo olio extravergine di oliva (preferibilmente del Salento). Dopo una decina di minuti (occhio: le cipolle non devono assolutamente bruciare! Tenete quindi la fiamma al minimo e, se occorre, bagnate il soffritto con un goccino di acqua calda) unite la polpa di pomodoro ed un pizzichino di sale e continuate la cottura fino a restringimento del sughetto. Poco prima di levarla dal fuoco gettate in padella capperi e olive (snocciolate, se non volete immolare un dente alla sacra pitta). Quando sugo e patate saranno ben freddi, potrete iniziare a "comporre" la vostra pitta. Alle patate precedentemente passate aggiungete l'uovo intero, il formaggio, poco sale, un paio di cucchiai del sughetto preparato (serviranno a dare un bel colore) e qualche fogliolina di mentuccia spezzettata. Impastate il tutto senza indugiare (ricordate che non state facendo un puré!). Ungete d'olio un tegame antiaderente e stendetevi sul fondo la metà dell'impasto in uno strato non troppo alto, sul quale verserete la cipollata. Coprite con un altro strato di patate (un trucchetto per eseguire quest'operazione al meglio: bagnatevi le mani!), poi ungete la superficie di olio e completate con una bella spolverata di pane grattugiato. Infornate a 200 gradi fino a doratura. La pitta si gusta tiepida o, meglio ancora, fredda. Sempre ammesso che riusciate a resistere al profumo che sprigiona all'uscita dal forno!   






























Qui troverete la pitta di patate che ha realizzato la bravissima Ornella di "Ammodomio" seguendo la mia ricetta:


Qui, la più bella pitta di patate che si sia mai vista, realizzata magistralmente, sempre seguendo la mia ricetta, da Sara di "Di pasta impasta": 


E che dire di quella che ha fatto la simpaticissima (e determinatissima) Bruna di "Tentazioni di gusto"? Davvero niente male, no?  



   


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