venerdì 28 dicembre 2012

SUA MAESTA' LA PITTULA (regina delle feste)


Pittule semplici



Non è facile spiegare al di fuori del Salento cosa siano le pittule: definirle “frittelle” è riduttivo, se non addirittura offensivo. La pittula è una vera e propria opera d’arte! Assimilabile, per certi aspetti, alla Gioconda leonardesca, classica ed intramontabile,  ma, soprattutto, all’Elasticità boccioniana, tutta energia e movimento. Un’enorme energia si sprigiona, difatti, già in fase di preparazione,  dal braccio indefesso che impasta, sbatte e schiaffeggia (specialmente quando le pittule costituiscono il pranzo o la cena della famiglia e la mole delle dosi richiede un’erculea fatica), e continua a sprigionarsi per tutta la durata della lievitazione, per condurre la pasta a raddoppiare, se non a triplicare, il volume iniziale. Per non parlare della cottura, apice di dinamismo e vigore, con le pallottole di pasta lievitata che sfrigolano incessantemente e crescono e si gonfiano fin quasi a scoppiare.
 A Gallipoli non esiste festa degna di tal nome che non venga onorata da una scorpacciata di pittule gustate “caute caute”, ossia bollenti, appena raccolte dalla schiumarola. Perché è questo il modo giusto di consumarle:  “friscendu e mangiandu”, per la precisione, e non ne esistono altri. Si comincia a “mmassare” pittule il 15 di ottobre, per santa Teresa, e si continua fino all’anno nuovo: l’11 novembre per san Martino, il 30 per sant’Andrea, il 7 dicembre per la vigilia dell’Immacolata,  il 24 per la vigilia di Natale, il 31 per la fine dell’anno e il 5 gennaio per la vigilia dell’Epifania. 
Non importa che siano dolci o salate, farcite (con baccalà, seccia, minoscia, caulufiure) o semplici semplici (‘mbutulate nello zucchero semolato o ssuppate nel mosto cotto o nel miele): le pittule sapranno sempre stuzzicare l'appetito e l'allegria  dei commensali, specie se accompagnate dal mitico rosato del Salento! 



INGREDIENTI


1 kg di farina 00

25 grammi di lievito di birra


20 grammi circa di sale fino


acqua tiepida q.b.



In una terrina (molto capiente, mi raccomando!) mettete la farina assieme al lievito sciolto in un bicchiere di acqua tiepida; cominciate ad impastare con le mani, aggiungendo il sale e, gradatamente, altra acqua, fino a quando l’impasto non risulterà fluido, liscio ed elastico. Coprite la terrina con un canovaccio e poi con la classica “manta” (coperta di lana) e lasciate lievitare la pasta per almeno tre ore. Quando il volume iniziale vi sembrerà raddoppiato mettete a scaldare abbondante olio extravergine di oliva in una pentola larga e profonda. L’ideale sarebbe formare le pittule con le mani (bagnate), ma per farlo in modo corretto bisognerebbe avere la fortuna di osservare una volta una massaia salentina all’opera. Se abitate al di là della soglia messapica arrangiatevi con un cucchiaio :) Friggete le pittule nell’olio ben caldo (ma non fumante) fino a doratura e... facitubbe intra fore!!! 











                                                                                         Pittule con cavolfiore bollito




Pittule alla pizzaiola 
(cioè con un trito di cipolla, prezzemolo, pomodorini, olive nere, capperi sott'aceto)











lunedì 3 settembre 2012

CIAMBELLA DI PESCHE SETTEMBRINE







Ho sempre amato settembre. Non solo perché ci sono nata. Settembre ha un sapore speciale: di  languidezza, di amabile malinconia. Che gli altri mesi non hanno. E’ancora estate, ma sta finendo, e senti tutto lo struggimento delle cose belle che finiscono:  un’avventura, una storia d’amore, la vita stessa.
Con lo svanire della libertà di cui abbiamo goduto appieno nei giorni estivi,  la nostra esistenza torna a configurarsi in una dimensione più limitata, quella usuale, lasciandoci un po' d'amaro per aver perduto la condizione ideale.  Ma ci consola subito, lui: con il profumo dei frutti più dolci e sensuali, con i sorrisi dei bimbi che invadono le strade per andare a scuola, con gli spettacoli meravigliosi di tappeti di foglie infuocati e pioggerelline avvolgenti che ci fa intravedere dalla porta semiaperta sull’autunno. 
L’ho aspettato tanto, il mio settembre, e, finalmente, è qui.  


Con le ultime pesche dell'estate ho preparato un dolce che avevo notato tempo fa su questo blog e che mi ero ripromessa di provare. Ho apportato qualche piccola modifica alla ricetta di Assunta (la quale ha a sua volta modificato quella originale di Ernst Knam): ho aumentato il quantitativo di frutta, sostituito lo yogurt bianco con yogurt alle pesche e cotto l'impasto in uno stampo per ciambella anziché in quello da plum cake.  Prossimamente ho intenzione di provare questa, poi questa  e quest'altra ancora... Giusto per iniziare! Perché Assunta è di una bravura eccezionale e le sue ricette sono tutte da copiare! :-)



CIAMBELLA DI PESCHE SETTEMBRINE 


INGREDIENTI
                                  

150 g di burro morbido

250 g di zucchero semolato 

125 g di yogurt alle pesche

350 g di farina 00

3 uova

50 ml di latte

12 g di lievito per dolci

un chilo di pesche dolci e succose

2 cucchiai di rum

buccia grattugiata di un limone


In una ciotola montate il burro con lo zucchero e 25 g di yogurt. Sempre mescolando, unite a filo le uova leggermente battute. Incorporate 300 g di farina, precedentemente setacciata con il lievito, alternandola con il latte e lo yogurt rimanente. Profumate con il rum e la buccia di limone grattugiata. Sbucciate le pesche, tagliatele a pezzetti ed unitele in una ciotola a parte ai 50 g di farina rimanenti; quindi aggiungeteli all'impasto e mescolate bene con un cucchiaio di legno. Versate il composto in uno stampo imburrato ed infarinato e cuocete in forno preriscaldato a 170° per circa 40/45 minuti. 




















sabato 25 agosto 2012

AVVISO IMPORTANTE



Su consiglio dell' avvocato dell'Associazione Culturale "TraccePerLaMeta",  ho provveduto ad eliminare i due post contenenti parti del romanzo: "L'amante virtuale", di proprietà della sottoscritta. Ricordo, a chiunque pensi di utilizzare in qualsiasi modo quei testi, anche solo come fonte di ispirazione per la stesura di proprie opere letterarie, che esiste il reato di plagio; tale azione darebbe, pertanto, immediatamente adito a denuncia. 

giovedì 16 agosto 2012

LA TURTA DEL DONIZET





Che Donizetti era bergamasco, è la prima cosa che ho capito mettendo piede a Bergamo, venticinque anni or sono. Come ho fatto? Chiamasi “lampo di genio”! Davanti ad un “Teatro Gaetano Donizetti”, un monumento “A Gaetano Donizetti”, una “Via Gaetano Donizetti”, un’infinità di ristoranti ed hotel Donizetti, una "Torta Donizetti"  e perfino una “Casa Natale di Gaetano Donizetti” mi son detta: “Mizzegaaa! Vuoi vedere che Donizetti…bergamasco fu?”
La conferma mi è arrivata in seguito, leggendone la biografia; non tanto dal luogo di nascita in essa riportato, bensì da quella “dolce fretta” che lo caratterizzava. Chi, se non un bergamasco doc,  emblema del lavoratore instancabile, avrebbe potuto comporre un’opera grandiosa come “L’elisir d’amore” in appena quattordici giorni ed un capolavoro quale “Lucia di Lammermoor” in poco più di un mese? Pensate che è riuscito a produrre più di ottanta opere morendo a soli cinquant’anni; non oso immaginare a che numeri sarebbe arrivato se fosse stato un tipo longevo come Andreotti!
Donizetti era sempre in attività – scrisse il tenore Duprez, protagonista del “Don Sebastiano”, nei suoi “Souvenirs d’un chanteur”- : non riusciva a tenersi in tasca quattro versi senza metterli subito in musica, stando in piedi, camminando, mangiando o riposando”.    
Questo bergamasco doc, quindi, vide la luce in Berghem de hüra  il 27 novembre 1797; ma dovette vederne ben poca, visto che nacque sottoterra! Non sto mica scherzando! “La mia nascita fu più segreta però poiché nacqui sotto terra in Borgo Canale. Scendevasi per una scala di cantina ov’ombra di luce mai penetrò…  Pochi vani freddi e bui da dove gufo presi il mio volo, portando a me stesso or triste or felice presagio”. Così scriveva a Simone Mayr il 15 luglio 1843.
Simone Mayr, bavarese trapiantato a Bergamo, è considerato il maestro e l’amico più caro di Donizetti; secondo me è, prima di ogni altra cosa, la prova lampante dell’esistenza degli angeli. Nel 1802 aveva accettato la "modesta" offerta di diventare maestro di cappella presso la Basilica di Santa Maria Maggiore di Bergamo, dove era stato studente in gioventù, e dirigeva una scuola musicale gratuita per ragazzi non abbienti ma vocalmente dotati. La finalità essenziale della scuola era quella di formare giovani coristi per la Cappella; il requisito della bella voce, quindi, era fondamentale. Gaetano era sì poverissimo, ma possedeva una voce “difettosa e rauca” che ai tempi nostri gli avrebbe spalancato le porte del successo (Marco Carta docet), ma ai tempi suoi gli avrebbe impedito di diventare uno dei maggiori musicisti della storia se non fosse intervenuto  Mayr a cambiare le regole di ammissione. Così quel piccolo genio poté studiare canto, pianoforte, teoria musicale ed accedere, in seguito, al Conservatorio. Non sempre le “spintarelle” agevolano gli incapaci! Donizetti dimostrò di meritare pienamente il successo, perché non era certo facile contendere i Teatri di mezza Europa a due colossi musicali del calibro di Rossini e Bellini (quest'ultimo, suo diretto rivale)! A proposito di Bellini, concedetemi un piccolo pettegolezzo: pare che il catanese autore della “Norma” non riuscisse  proprio a sopportare il povero Gaetano e non gli risparmiasse le critiche più feroci. A mio avviso, lo faceva rosicare la prodigiosa fecondità del bergamasco che, al confronto, lo faceva apparire il solito  meridionale fancazzista. Comunque Donizetti  non se ne preoccupò, tirando dritto per la sua strada. La sua produzione non conobbe battute d’arresto. Il destino, con lui ingeneroso, gli strappò, in rapida successione, tutti gli affetti più cari: prima i genitori, poi i figli ancora in fasce, infine la bellissima moglie Virginia, stroncata dal colera a soli ventinove anni. La sua eccezionale forza d’animo gli fece superare questa crisi spaventosa (“Senza padre, senza madre, senza moglie senza figli... per chi lavoro dunque ? ... Tutto, tutto ho perduto”) senza mai smettere di lavorare. Laddove neanche il dolore più profondo era riuscito, riuscì la sifilide: questa malattia all’epoca incurabile, che mieté tante vittime illustri anche tra i musicisti, tra cui Beethoven, Schumann, Paganini, causò a Donizetti gravi problemi mentali che fermarono per sempre il suo lavoro. Egli fu rinchiuso nel  manicomio di   Ivry-sur-Seine, da cui uscì solo qualche mese prima della morte, avvenuta l’8 aprile 1848.
Il giorno 11 Bergamo rese al figlio della sua terra esequie magnifiche, a cui assistettero oltre quattromila persone, con un corteo di quattrocento fiaccole, e i giovani della città portarono la bara al cimitero, “malgrado che la già grande distanza dal cimitero sia stata molto aumentata in quanto gli abitanti dei sobborghi vollero anch’essi dare un ultimo saluto al grande Maestro, facendo passare il corteo per quelle vie che, come tu sai, vi sono circa tre miglia di percorso” (dalla lettera di Giovannina Basoni pubblicata da G. Zavadini).  
In verità i bergamaschi non hanno mai smesso di onorare il loro testimonial nel mondo dedicandogli, nel tempo, tutto quel po' po' di roba che vi ho elencato ad inizio post e che ho  fotografato appositamente per voi, barcamenandomi tra Città alta e Città bassa con tanto di macchina fotografica appesa al collo e sguardo turistico, in perfetto stile "giapponesiaFirenze" :-) Ma cominciamo con la Casa Natale di Donizetti, al numero 14 di Borgo Canale (non sapete quante multe ho rischiato di prendere per arrivarci in macchina):

















Ora vi faccio vedere il Teatro a cui è stato dato il suo nome... 











... ed il monumento, nelle immediate vicinanze, opera di Francesco Jerace, che rappresenta il musicista mentre ascolta, assorto, la dolce musica suonata con la cetra dalla musa Melopea:












C'è anche la foto coi piccioni irriverenti! :-D






Per concludere in bellezza, vi regalo ricetta e foto della "Torta Donizetti": un dolce ottocentesco, delicato, armonioso, buonissimo, che fa venire la voglia di tirare fuori dalla cassapanca di noce la tovaglia preziosa della bisnonna e i cucchiaini d'argento... 



LA TURTA DEL DONIZET 


INGREDIENTI:


120 grammi di fecola di patate 

50 grammi di farina

135 grammi di zucchero

320 grammi di burro

8 tuorli d'uovo e 4 albumi

1 bacca di vaniglia

1 cucchiaio da the di maraschino

100 grammi di albicocche candite a cubetti

100 grammi di ananas candito a cubetti



Montate il burro assieme a 120 grammi di zucchero ed aggiungete un tuorlo per volta fino a che il tutto non sia bene amalgamato. Montate a neve i quattro albumi con i rimanenti 15 grammi di zucchero ed uniteli al composto precedentemente lavorato. Aggiungete gradatamente la farina e la fecola, poi i canditi, il maraschino e la vaniglia. Imburrate uno stampo a ciambella del diametro di 24 centimetri, versatevi il composto e ponete in forno pre-riscaldato a 180° per circa 40 minuti. Lasciate raffreddare la torta, cospargetela abbondantemente di zucchero a  velo e servitela.


















  



giovedì 19 luglio 2012

LA PITTA TE PATATE (sottotitolo: non chiamatela gattò!!!)







Come ho già detto in altri miei post, curiosando nel web si incontra veramente di tutto. L’altro giorno volevo fare la pitta di patate: io, naturalmente, ho la mia preziosa ricetta di famiglia, che risale come minimo a dieci generazioni fa, e vado sul sicuro; ma mi metto nei panni della casalinga di Bolzano (quella di Voghera è in vacanza a Gallipoli e la pitta la mangia sul posto) che, avendo sentito di questo piatto “cult” della tradizione salentina, desideri provare a farlo in casa propria e ne cerchi in Internet la ricetta “originale”:  credo che desisterebbe subito, rifugiandosi di corsa nei suoi rassicuranti canederli. Il caos più totale! Ho trovato ricette della pitta davvero assurde, come quella che prevede nell’impasto di base la farina o un’altra che vi inserisce il lievito (a che pro, chiedeteglielo voi), per non parlare di chi alle patate passate pretenderebbe di mescolare burro e parmigiano (sarà un fan del puré), besciamella (orrore!) o, addirittura… sottilette (sigh)!!!  Oscar Wilde diceva di detestare le persone che non prendono seriamente il cibo e diceva bene: non c’è niente di più irritante (e ridicolo) di quei superficialoni presuntuosi che salgono in cattedra  per insegnare di cucina senza avere la più pallida idea di ciò di cui parlano. Ma, dico io, per gli dei dell’Olimpo con tutto il monte, documentatevi, no? Perché c’è gente che magari vi piglia sul serio sprecando tempo e denaro dietro ad una vostra pseudoricetta! Un po’ di correttezza e di competenza, anche nel web, a mio avviso non guasterebbe. Tornando alla pitta e alle fandonie che circolano in rete sul suo conto, la cosa più assurda che mi sia capitato di leggere è che “pitta e gattò sono la stessa cosa” o che “la pitta è una specie di gattò, solo con un ripieno diverso” (il concetto, sempre quello è). A questo punto, in quanto salentina, prof e della Vergine, mi sento in dovere di intervenire per dimostrare che pitta e gattò NON SONO AFFATTO LA STESSA COSA, anzi! Le due pietanze si differenziano profondamente per il diverso contesto storico-sociale in cui sono nate e dal quale sono state influenzate a livello di ingredienti e di modalità esecutive. Il gattò  ebbe i suoi natali nel Settecento, nella cucina dei sovrani di Napoli, ad opera dei famosi monzù: pare che la regina Maria Carolina  fosse rimasta talmente colpita dalla cucina di corte di Versailles, dove regnava sua sorella Maria Antonietta, da chiedere a quest’ultima di donarle alcuni dei suoi cuochi migliori. Fu così che costoro invasero la capitale del regno borbonico creando, per il Re Nasone e l’austriaca consorte, raffinate prelibatezze tra cui il timballo di pasta, il babà e, appunto, il gattò di patate. Qui, sì, ci va il burro, proprio perché è opera di un francese e, si sa, i cuochi della douce France sguazzano da sempre tra i grassi animali come se il colesterolo non esistesse. Burro, quindi, assieme ai prodotti tipici del Napoletano: la mozzarella fiordilatte, il salame, la provola… Le sottilette non sono contemplate nemmeno qui, ma si tratta sicuramente di una svista :)  
Ora, abbandonate le cucine reali, gli ingredienti costosi e raffinati, monzù Gaston con il suo seguito di  beurre, erre moscia e puzzetta sotto il naso e fate un salto tra gli ulivi di quello stesso Sud in un tempo assai più remoto dove, tra quattro mura umide e fatiscenti, una donna bruna dalla bellezza sfiorita, una contadina, si sta ingegnando per inventarsi qualcosa con cui sfamare marito e figli. E’ il miracolo che si rinnova ogni santo giorno, cavar fuori qualcosa di gustoso e sostanzioso da quel poco che passa il convento: qualche verdura tirata su rigogliosa dal sudore della propria fronte ed un po’ di olio buono scampato alla cupidigia dei padroni, custodito nell’orcio. Il profumo di pitta si solleva dal coccio tra la cenere del focolare, riempie i nasi dei commensali affamati e stuzzica l’allegria; si rallegra pure chi l'ha fatta, giacché ha di che saziare quegli appetiti robusti. Dopo torneranno tutti nei campi e riprenderanno a spaccare il suolo con le vanghe, poiché si semina prima di raccogliere e si dà prima di ricevere. Il dare è tanto,  perché la terra è esigente. Reclama fatica, sangue, schiene spezzate, e alla donna bruna chiede più degli altri, perché, si sa, meglio sopporta e tace. Ma un giorno il grano tornerà a farsi alto e gli uomini correranno a prendere i tamburelli per accompagnarla nel ballo forsennato che sfiancherà la bestia maledetta; e, con essa, la sofferenza di chi deve inventarsi il morso di un ragno per esistere







PITTA DI PATATE SALENTINA
(quella vera!)


INGREDIENTI:


1 chilo e mezzo di patate a pasta gialla

200 grammi di pecorino salentino ben stagionato

un uovo grande

mentuccia 

un pugno di pane grattugiato

mezzo chilo di cipolle dorate

400 grammi di polpa di pomodoro fresca 
(meglio di pomodori San Marzano)

una manciata di olive salentine in salamoia

un cucchiaio di capperi sott'aceto

sale e olio extravergine di oliva q.b.



Lavate le patate, mettetele in una pentola, copritele di acqua fredda  e fatele cuocere per circa un'ora. Pelatele e passatele finché sono ancora calde, poi lasciatele raffreddare. Nel frattempo preparate il sughetto. Affettate sottilmente le cipolle e fatele dorare in padella assieme ad una dose generosa di ottimo olio extravergine di oliva (preferibilmente del Salento). Dopo una decina di minuti (occhio: le cipolle non devono assolutamente bruciare! Tenete quindi la fiamma al minimo e, se occorre, bagnate il soffritto con un goccino di acqua calda) unite la polpa di pomodoro ed un pizzichino di sale e continuate la cottura fino a restringimento del sughetto. Poco prima di levarla dal fuoco gettate in padella capperi e olive (snocciolate, se non volete immolare un dente alla sacra pitta). Quando sugo e patate saranno ben freddi, potrete iniziare a "comporre" la vostra pitta. Alle patate precedentemente passate aggiungete l'uovo intero, il formaggio, poco sale, un paio di cucchiai del sughetto preparato (serviranno a dare un bel colore) e qualche fogliolina di mentuccia spezzettata. Impastate il tutto senza indugiare (ricordate che non state facendo un puré!). Ungete d'olio un tegame antiaderente e stendetevi sul fondo la metà dell'impasto in uno strato non troppo alto, sul quale verserete la cipollata. Coprite con un altro strato di patate (un trucchetto per eseguire quest'operazione al meglio: bagnatevi le mani!), poi ungete la superficie di olio e completate con una bella spolverata di pane grattugiato. Infornate a 200 gradi fino a doratura. La pitta si gusta tiepida o, meglio ancora, fredda. Sempre ammesso che riusciate a resistere al profumo che sprigiona all'uscita dal forno!   






























Qui troverete la pitta di patate che ha realizzato la bravissima Ornella di "Ammodomio" seguendo la mia ricetta:


Qui, la più bella pitta di patate che si sia mai vista, realizzata magistralmente, sempre seguendo la mia ricetta, da Sara di "Di pasta impasta": 


E che dire di quella che ha fatto la simpaticissima (e determinatissima) Bruna di "Tentazioni di gusto"? Davvero niente male, no?  



   


martedì 10 luglio 2012

UNA GIOIA... E' PER SEMPRE


La gioia che non è condivisa, ho sentito, muore giovane scrive in Welcome Morning la poetessa Anne Sexton. Per evitarne la dipartita precoce e renderla imperitura ho, dunque, deciso di condividere con "i miei venticinque lettori" l'incommensurabile gioia provata qualche giorno fa nello scoprire, del tutto casualmente, navigando nel web, un articolo che parla di me e di un mio scritto in particolare: quello che potete trovare nella sezione di "Ambrosia e Nettare" intitolata: La mia ricetta del cuore
Il superlativo articolo in questione è opera della dottoressa  Mariangela Lopopolo (che ringrazio sentitamente per l'attenzione), la cui attività di ricerca fa capo al Centro Studi Camporesi che è parte del Dipartimento di Filologia classica e Italianistica dell'Università di Bologna.
Io, in un'ottica di semplificazione, ho estrapolato la parte che mi riguarda direttamente e ve la riporto qui di seguito, ma vi consiglio la lettura integrale del testo perché l'argomento che tratta (Cibo, emozioni e scrittura. L'etica dei foodblog) è interessante e coinvolgente. Non soltanto per i foodblogger!




4. Foodblog e condivisione emotiva



L’invito a condividere emozioni è quasi scritto su ogni pagina dei foodblog. Essendo dei diari-ricettari in rete, essi rendono pubblica la personale esperienza culinaria del blogger, mettendola in comune con tutti i visitatori. Si tratta di un’esperienza in cui la componente emotiva non manca mai, proprio perché, come si è visto, il gusto del cibo emoziona sempre chi lo prova, sia pure in fase di preparazione, assaggiando e pregustando. Il cibo, insomma, è inscindibile dalle emozioni che suscita e la scrittura dei foodblog chiama a prendervi parte. In alcuni casi lo fa attraverso piccoli accenni come quelli del Cavoletto di Bruxelles, che si riferisce agli “asparagi alla fiamminga” con il diminutivo affettivo di “ricettina”, li annovera tra i “piatti della mamma”, dice che per lei “sanno di casa”. In altri casi, il richiamo emotivo è più marcato come, ad esempio, lo è in Ambrosia e Nettare, che riserva una sezione apposita del suo blog alla “ricetta del cuore”. 
Ambrosia e Nettare (ambrosiaenettare.blogspot.it) è il foodblog di Lucia, insegnante originaria di Gallipoli che vive e lavora a Bergamo. Cliccando “La mia ricetta del cuore”, il blog offre ai visitatori le emozioni di questa ricetta-ricordo:

Se l’uomo è ciò che mangia, io sono minestrone. Ne ho divorata una quantità incalcolabile nel corso della mia vita e, di sicuro, sono stata la sola bambina che abbia preferito il minestrone ai più prelibati manicaretti. Lasagne, cannelloni, arrosti sopraffini… nulla era in grado di farmi luccicare gli occhi come quella straordinaria alchimia di odori e sapori che mia madre sapeva ricavare da un miscuglio di verdure banali. Cosa ci volete fare?! Ognuno ha le sue stranezze. Non ricordo come e quando mi sia sorto l’amore sviscerato per questa pietanza, ma se penso ad essa la memoria mi conduce prontamente alla casa bianca profumata di salsedine in cui crebbi innamorandomi di cielo e mare e all’angusta botteguccia dove dovevi contendere alle cassette di frutta ammucchiate per terra e alle corone di agli e cipolle appesi al muro lo spazio per respirare.

Da casa alla botteguccia c’era qualche centinaio di metri che io percorrevo curiosa e pimpante, stringendo la mano materna. I bambini “che crescevano solo per andarsene” li vedevo giocare per strada a piedi nudi, vestiti di stracci. Le loro grida gioiose si levavano al cielo insieme all’odore di umido delle case scrostate e della pignatta di fagioli messa a sobbollire fin dalle prime luci dell’alba. Al mio passare, le vecchie sedute sull’uscio a recitare il rosario sollevavano il capo coperto da un velo nero e la fierezza del loro sguardo mi trapassava l’anima. Allora distoglievo gli occhi da quei volti che la miseria aveva scolpito nella durezza e il tempo ricamato di rughe, per perdermi nel rosso acceso dei mazzi di peperoncino appesi a testa in giù nei cortili o nel brillante candore del bucato fatto a mano che giocava a svolazzare col vento di scirocco. Panni come gabbiani… Li sentivo sopra la mia testa. Quante volte ho chiuso gli occhi e teso la mano sperando che venissero a prendermi…che potessi diventare una di loro!

Raggiunta la piccola e caotica bottega, mia madre cominciava a chiedere di questo e di quell’ortaggio, accompagnando ogni richiesta con la stessa, perentoria, raccomandazione: “Scocchiameli belli, sinò te li tornu arretu!” (Sceglimeli belli, altrimenti te li riporto!), e il povero fruttivendolo cerniva, pesava e infilava nei sacchetti di carta, sotto lo sguardo vigile di chi, persi i genitori in tenera età, aveva dovuto apprendere in fretta l’arte di non farsi fregare. La spesa si concludeva sempre con l’omaggio di un mazzo di prezzemolo grosso e rigoglioso che la mamma dava da tenere a me e che io badavo bene a non sciupare, manco avessi tra le mani un prezioso bouquet da sposa! Appena tornate a casa, mia madre si metteva all’opera ed io assistevo ai lavori, dai quali neppure il sopraggiungere di un cataclisma avrebbe potuto distogliermi. Mi deliziava quel rituale, quel susseguirsi di operazioni caratterizzate da rumori ben precisi: prima lo scroscio dell’acqua corrente che investiva le verdure per ripulirle, poi lo sbatacchio della lama che tagliuzzava decisa e sapiente, quindi lo sfrigolìo della variopinta dadolata nell’incontro irruente con l’olio bollente, infine il borbottio sommesso del brodo lasciato per lungo tempo a sobbollire. Ma il momento più amato era quando, a cottura ultimata, arrivava quel: “A tavola!!!” bello squillante, preceduto dal profumo paradisiaco del mio piatto preferito che fuoriusciva dalla pentola. Quel minestrone aveva un alcunché di magico che non sono più riuscita a ricreare… forse perché la magia era nel cuore di una bimba che viveva le cose come frammenti di un mondo incantato, e sognava di diventare un gabbiano[21].


Il testo è accompagnato dalle fotografie di una casa bianca tra il blu di cielo e mare, di Lucia da bambina e di un coloratissimo minestrone nel piatto. Questo selezionato apparato fotografico intensifica la carica emotiva di una scrittura capace di rievocare il passato anche attraverso un bel contrasto di immagini. Si tratta, in particolare, del contrasto tra il bianco e nero della terra d’infanzia ed i colori delle verdure. Infatti, da una parte Ambrosia e Nettare fa riferimento al velo nero delle vecchie sull’uscio che recitano il rosario e al bianco dei panni al vento che sembrano gabbiani; dall’altra richiama il rosso acceso dei mazzi di peperoncino, il verde del bouquet di prezzemolo e tutti i colori delle varie verdure, prima nella “botteguccia” del venditore, poi nella cucina di casa. Il minestrone di colori e l’“alchimia di odori e sapori” della pietanza ravvivano il bianco e nero della memoria e le emozioni del passato: quel misto di solenne rispetto e di estasiato incanto per un tempo ed un luogo in cui preparare da mangiare era un rito. Di tale rito, Lucia lamenta di non riuscire a ricreare l’“alcunché di magico”; tuttavia non solo insiste personalmente nel perpetuarlo, ma invita i visitatori del suo blog a parteciparvi. Lo fa saldando il rammarico per l’impossibilità di recuperare la magia dell’infanzia, con gli ingredienti e le indicazioni riguardanti lo stesso minestrone: 

INGREDIENTI PER DUE PERSONE:

1 verza
2 carote
2 zucchine
6 pomodori ramati maturi ma sodi
il cuore di un sedano verde
150 grammi di piselli
150 grammi di fagioli
(borlotti freschi oppure cannellini secchi lessati a parte)
4 patate
2 cipolle
200 grammi di fagiolini
brodo vegetale q.b.
olio extravergine di oliva
sale
parmigiano grattugiato

Lavate le verdure e sbucciate quelle che necessitano di tale operazione. Tagliate verza, patate, zucchine, carote, cipolle, sedano e fagiolini a pezzetti regolari. Pelate i pomodori, privateli dei semi e riducete anch'essi a dadini, mettendoli in una ciotolina a parte.
Scaldate almeno mezzo bicchiere di olio in una pentola alta munita di coperchio e fatevi dorare le verdure (eccetto i pomodori, i piselli e, se avete scelto di non usare i borlotti freschi, i fagioli). Salate leggermente e coprite con il brodo vegetale caldo. Fate sobbollire lentamente a tegame coperto, mescolando di tanto in tanto. Dopo una mezz'ora aggiungete piselli e pomodori (se usate i cannellini già lessati, uniteli solo poco prima di spegnere il fuoco). Continuate a cuocere finché le verdure risulteranno tenere (ma non sfatte). Distribuite il minestrone nelle fondine, irrorate con un filino di olio e spolverizzate con abbondante parmigiano grattugiato[22].


In questo modo, oltre a mettere in comune con i visitatori in rete le sue emozioni, Ambrosia e nettare fornisce istruzioni da mettere in pratica ciascuno nella propria cucina. Il foodblog, dunque, mentre invita alla condivisione emotiva, favorisce anche la concreta formazione di abilità culinarie. (continua)

giovedì 24 maggio 2012

LA 'MPILLA





Di prodotti di cui vantarsi, la Puglia ne ha a bizzeffe: basti pensare che, degli oltre cinquemila prodotti italiani inseriti ufficialmente nell’Elenco Ministeriale dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali, ben duecentoventisei sono pugliesi (e scusateci se è poco!). Tra questi, ve n’è uno dal nome davvero curioso: ‘mpilla. La ‘mpilla è come la frisa o il pasticciotto: non si può descrivere, la devi assaggiare! E una volta assaggiata ne resti conquistato. Assaporare la ‘mpilla, però, non è affatto facile, nemmeno se si ha la fortuna di fare un bel viaggetto in Salento: essa, infatti, non viene prodotta in ogni luogo della penisola salentina ma soltanto nel comune di Sannicola (a circa sei chilometri dalla mia Gallipoli, in territorio “poppitu”) e nella sua frazione, Chiesanuova. Io stessa, pur essendo salentina, ne ho ignorato l’esistenza per più di vent’anni: poi hanno fatto irruzione nella mia vita marito e ‘mpilla (poppiti entrambi) e mi hanno sconvolto l’esistenza! :-D  






    INGREDIENTI 
(PER UNA DECINA DI PEZZI):


800 grammi di semola di grano duro

200 grammi di farina 00

25-30 grammi di sale

25 grammi di lievito di birra

200 grammi di olio extravergine di oliva

una ventina di pomodorini dolci e maturi

2 grosse cipolle bionde

una decina di zucchine novelle complete di fiore

una manciata di olive nere (possibilmente salentine)

un paio di cucchiai di salsa di pomodoro

acqua tiepida q.b.


peperoncino piccante a piacere

un paio di spicchi di aglio





Lavate, mondate e tagliate a pezzetti gli ortaggi; fateli stufare dolcemente nell’olio, poi salate, aggiungete la salsa e fate restringere il sughetto. Quando si sarà ristretto sufficientemente,  completate con le olive snocciolate e tagliate a metà e spegnete il fuoco. Versate a fontana sulla spianatoia la semola di grano duro precedentemente miscelata con farina e sale;  fate un buco al centro della fontana e versateci il lievito sciolto in una tazzina di acqua tiepida. Aggiungete il peperoncino e  la metà delle verdure con tutto l’olio di cottura ed impastate con altra acqua tiepida tenendo l’impasto abbastanza duro.  Mettete la pasta ottenuta in una terrina capiente, coprite con un canovaccio e lasciate lievitare per  tre ore. Riprendete la pasta, incorporatevi il resto delle verdure e fate lievitare per un’altra ora. A questo punto potete formare le pagnottelle: tagliate la pasta in dieci pezzi e cercate di arrotondarli un po’, infarinateli leggermente passandoli nella semola di grano e disponeteli nelle teglie rivestite di carta da forno. Accendete il forno a 250 gradi e fatelo scaldare bene (il mio ci impiega circa un quarto d’ora). Infornate le ‘mpille  e lasciatele cuocere per 35-40 minuti.





























Dimenticavo: il termine "poppitu" o "ppoppatu" (dal latino "post oppidum", ovvero fuori dalle mura della città) corrisponde al romanesco "burino" e viene usato dai gallipolini per indicare in modo scherzoso i "non cittadini", ossia gli abitanti campagnoli dei paesini limitrofi :-)